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  • Immagine del redattoreAle Torrini

" Il figlio del Tuono" leggenda Giapponese

La vita sa confondere le sue tracce, e tutto del passato, può diventare materia di sogno, argomento di leggenda... Giorgio Bassani

In mezzo alle colline di Echizen, nelle vicinanze della montagna nevosa chiamata Hakuzan, viveva un contadino di nome Bimbo.

Era poverissimo, ma frugale e operoso; e adorava i bambini, anche se non ne aveva di suoi.

Desiderava fortemente adottare un figlio per dargli il suo nome e spesso ne discuteva con la moglie, ma essendo così terribilmente poveri erano entrambi d’accordo di non adottarne uno fino a quando la loro condizione fosse migliorata e fossero riusciti ad avere più terreno da coltivare.

Tutto quello che Bimbo possedeva era la terra in una piccola gola che aveva bonificato da solo.

Un ruscelletto che sgorgava da una sorgente in una fenditura nelle rocce soprastanti, dopo essersi fatto strada tra i massi, rotolava giù nella gola per gettarsi in un ruscello nell’ampia valle sottostante.

Bimbo con grande fatica, dopo molti anni, aveva costruito dighe o terrazze di pietra in cui aveva gettato della terra, in parte presa dai fianchi della montagna, ma per lo più trasportata in ceste dalla valle sottostante sul dorso suo e della moglie. Grazie a questo duro e faticoso lavoro, portato avanti anno dopo anno, si erano formati piccoli letti di terra, nei quali poteva essere piantato e fatto crescere il riso. Il ruscelletto forniva l’acqua necessaria, infatti il riso, il cibo quotidiano di operai e contadini, deve essere piantato e coltivato nel fango soffice sott’acqua. E così il ruscelletto, che un tempo saltava sulle rocce e si scavava la strada cantando verso la valle, ora si spargeva silenziosamente su ciascuna terrazza, creando più di una dozzina di cascatelle prima di raggiungere i campi sottostanti. Ma dopo tutta questa fatica per anni e anni, lavorando ogni giorno dal primo gracchiare dei corvi fino a quando comparivano le stelle, Bimbo e sua moglie possedevano meno di un acro di terreno terrazzato. A volte l’estate passava, e cadeva pochissima pioggia, o non pioveva affatto; così il ruscelletto si asciugava e il raccolto andava perduto. Sembrava inutile che il loro dorso fosse piegato e la fronte segnata e raggrinzita dalla preoccupazione. Spesso Bimbo lavorava duramente solo per pagare le tasse, che a volte ammontavano alla metà del raccolto. Molte volte scuoteva la testa borbottando il rassegnato proverbio dei contadini: “Un nuovo campo dà un raccolto scarso”, le cui parole possono anche significare: “La vita umana finisce a cinquant’anni”. Un’estate, dopo una lunga siccità, quando i germogli del riso stavano ormai appassendo, le nuvole cominciarono a radunarsi e rotolare, e presto cadde una pioggia leggera, i fulmini saettarono e le colline rimbombarono per i tuoni. Ma Bimbo, con la zappa in mano, fu così felice di veder cadere la pioggia, e le gocce picchiettanti cadevano così fredde e rinfrescanti, che si mise a lavorare con più lena, rinforzando la terrazza perché resistesse alla piccola inondazione in arrivo. Ben presto la tempesta infuriò molto vicino a lui, e lui pensò che sarebbe stato meglio cercare riparo, temendo che il tuono lo colpisse e lo uccidesse. Perché Bimbo, come i suoi vicini, aveva spesso udito storie dell’ispido dio dai tamburi di tuono, che viveva nei cieli e cavalcava la tempesta, e a volte uccideva le persone gettando dal cielo su di esse una terribile creatura simile a un gatto, con artigli come ferro e un corpo peloso. Bimbo aveva appena gettato la zappa sulla spalla e aveva cominciato ad allontanarsi, quanto lo spaventoso bagliore abbacinante di un fulmine lo accecò. Immediatamente lo seguì un assordante boato, e il tuono cadde proprio davanti a lui. Si coprì gli occhi con le mani, poi accorgendosi di essere illeso rivolse una preghiera di ringraziamento a Buddha per la sua salvezza. Quindi si scoprì gli occhi e guardò in basso ai suoi piedi. Vide un bambino roseo e caldo, che mandava adorabili gridolini senza minimamente rabbrividire per la pioggia. Gli occhi del contadino si spalancarono, ma felice e fuori di sé per la gioia, prese con tenerezza il bambino tra le braccia e lo portò a casa alla sua vecchia moglie. «Questo è un dono del cielo», disse Bimbo, «lo adotteremo come nostro viglio e lo chiameremo Rai-taro», che significa “il figlio del tuono”. Anche la moglie fu entusiasta di quel grazioso bimbo e non si stancava mai di occuparsi di lui. E così Raitaro visse con loro e diventò un bambino molto rispettoso e affettuoso. Era tanto gentile e obbediente con i genitori adottivi che si sarebbe pensato che fosse nato nella loro casa. Non gli piaceva giocare con gli altri bambini, preferiva trascorrere le giornate nei campi con il padre adottivo, pescando nel ruscello e osservando le nuvole e il cielo. Anche quando i giocolieri ambulanti e il “Leone di Corea” arrivavano al villaggio, e ogni ragazzo e ragazza e uomo e donna erano sicuri che sarebbe stato un gran divertimento, il figlio del tuono rimaneva nel campo o si arrampicava sulle alte rocce per vedere gli uccelli veleggiare in cielo, lo scorrere dell’acqua e il cammino del fiume. Una grande prosperità arrideva ora al contadino, ed egli ne attribuiva tutto il merito al dolce bambino che era piovuto dalle nuvole fino a lui. Era una cosa molto strana che spesso la pioggia cadeva sul campo di Bimbo, mentre non ne cadeva da nessun’altra parte. E così Bimbo divenne ricco. Era convinto che il piccolo Raitaro chiamasse le nuvole, e queste riversassero la loro pioggia per lui solo. Trascorsero molte belle estati, e Raitaro era cresciuto fino a diventare un ragazzo alto e bello, quasi un uomo; aveva ormai diciotto anni. Il giorno del suo compleanno il vecchio contadino e la sua buona moglie diedero una festicciola per il loro figliolo adottivo. Mangiarono e bevvero e parlarono della tempesta di tuoni dalla quale era nato Raitaro. Infine il giovane disse con solennità: «Miei cari genitori, vi ringrazio con tutto il cuore per la vostra gentilezza nei miei confronti, ma ora devo dirvi addio. Spero che vivrete sempre felici».

Poi, in un attimo, prima che i due avessero il tempo di chiedergli cosa voleva dire, ogni parvenza di forma umana era scomparsa, ed essi videro librarsi nell’aria un piccolo drago bianco che fluttuò per un breve istante sopra di loro, poi volò via. L’anziana coppia corse fuori dalla porta per osservarlo, e ai loro sguardi stupiti sembrò diventare sempre più grande man mano che si allontanava. Diventò più grande e ancora più grande, dirigendosi in alto verso le colline, dove i cumuli di nuvole bianche che si formano nei pomeriggi d’estate sembravano costruire torri e castelli d’argento. Il drago si diresse verso uno di essi, finché, cresciuto a dimensioni imponenti, scomparve alla vista. Il contadino e la moglie s’inginocchiarono in segno di rispetto e dissero addio, con le lacrime agli occhi, ma con una strana pace nei cuori. Dopo questi avvenimenti, quando erano ormai molto vecchi e con i capelli bianchi, smisero di affaticarsi nei campi e vissero agiatamente per il resto dei loro giorni. Quando morirono, le loro ceneri furono deposte nel cimitero del giardino del tempio, e la loro tomba fu scolpita a forma di drago bianco, che, malgrado muschi e licheni, si può ancora vedere tra gli antichi monumenti del piccolo villaggio.

Testo originale in:





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