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  • Immagine del redattoreAle Torrini

Leggende Orientali - Una storia delle isole Oki

Secondo alcune leggende, il mare è la dimora di tutto ciò che abbiamo perduto, di quello che non abbiamo avuto, dei desideri infranti, dei dolori, delle lacrime che abbiamo versato”... Osho


Leggenda dal Giappone


Le Isole Oki, a una quarantina di miglia di distanza dalla parte continentale della provincia di Hoki, sono state per secoli la scena di lotte, sofferenza ed esilio, ma oggi sono abbastanza prospere e del tutto pacifiche.

Pesci, calamari e seppie costituiscono la maggior parte delle esportazioni.

C’è una formazione rocciosa difficile da raggiungere, che è stata visitata da ben pochi occidentali. Nel Medio Evo – cioè intorno all’anno 1000 – su queste isole si svolgevano molti combattimenti, e molte persone vi venivano mandate in esilio. Nel 1239 Hojo Yoshitoshi sconfisse l’imperatore Go Toba e lo esiliò sull’isola Dogen. Un altro capitano Hojo mandò in esilio un altro imperatore, Go Daigo, a Nishi-no-shima. Oribe Shima, l’eroe della nostra storia, fu probabilmente esiliato dallo stesso capitano Hojo, e la data dev’essere stata intorno al 1320. Al tempo in cui Hojo Takatoki regnava sul paese con potere assoluto, c’era un samurai di nome Oribe Shima. Per non so quale disgrazia Oribe (lo chiameremo così) aveva offeso Hojo Takatoki ed era stato condannato all’esilio su una delle isole dell’arcipelago di Oki che allora era chiamata Kamishima (Isola Sacra). Secondo altri l’isola doveva essere invece Nishi-no-shima (Isola dell’Ovest).


Oribe aveva una bella figlia di diciotto anni, che amava quanto lei amava lui, e quindi l’esilio e la separazione li rese entrambi doppiamente infelici.

La ragazza si chiamava Tokoyo, O Tokoyo San. Tokoyo, abbandonata nella sua vecchia casa nella provincia di Shima, piangeva dalla mattina alla sera e a volte dalla sera alla mattina.

Infine, non potendo più sopportare la separazione, decise di rischiare il tutto per tutto e tentare di raggiungere il padre o di morire nel tentativo, perché era coraggiosa, come lo sono molte donne della provincia di Shima, che hanno molta familiarità con il mare.

Da bambina, rischiando la vita malgrado la condizione elevata e il corpo fragile, le piaceva tuffarsi insieme alle donne il cui lavoro quotidiano era quello di raccogliere awabi, le ostriche perlifere. Non conosceva la paura. Avendo deciso di riunirsi al padre, O Tokoyo vendette quello che possedeva e s’incamminò per il lungo viaggio verso la lontana provincia di Hoki, dove giunse dopo molte settimane, in un luogo di mare di nome Akasaki, da cui nelle giornate serene si possono intravedere distintamente le isole di Oki. Subito cercò di convincere i pescatori a portarla fino alle Isole, ma era rimasta quasi senza denaro, e per di più nessuno era disposto ad approdare alle Isole Oki, e tantomeno a incontrare coloro che vi erano stati esiliati. I pescatori derisero Tokoyo e le dissero che avrebbe fatto meglio a tornare a casa. Ma lei non si lasciò scoraggiare. Mise insieme quante più provviste riuscì a rimediare, si recò sulla spiaggia durante la notte, e scelta l’imbarcazione più leggera che riuscì a trovare, la spinse con fatica in acqua e si mise a remare più forte che le permettevano le sue piccole braccia. Fortuna volle che si sollevasse un forte vento, e anche la corrente le era favorevole. La sera seguente, più morta che viva, i suoi sforzi furono coronati dal successo. La barca approdò sulla sponda di una baia rocciosa. O Tokoyo cercò un posto riparato e si stese a dormire per la notte. Al mattino si sveglio molto riposata, mangiò quanto restava delle provviste e si mise in cammino per scoprire dov’era suo padre. La prima persona che incontrò era un pescatore. «No», disse quello, «non ho mai sentito parlare di tuo padre e, se vuoi ascoltare il mio consiglio, non chiedere di lui, perché è stato esiliato, e questo potrebbe procurare dei fastidi a te e costare la vita a lui!» La povera O Tokoyo vagò da un luogo all’altro, vivendo di carità, ma senza mai sentire nulla del padre. Una sera giunse a un piccolo promontorio roccioso, su cui sorgeva un tempietto. Dopo essersi inchinata davanti a Buddha e aver implorato per ritrovare il suo amato padre, O Tokoyo si stese a terra intenzionata a trascorrere lì la notte: era un luogo tranquillo e sacro, ben protetto dai venti che anche d’estate com’era allora (il 13 giugno) soffiavano con una certa violenza tutto intorno alle Isole Oki.

O Tokoyo aveva dormito per circa un’ora, quando, malgrado il frangersi delle onde contro le rocce, udì uno strano suono: un battere di mani e i singhiozzi amari di una ragazza.

Quando guardò verso la luce brillante della luna, vide una bella giovane di circa quindici anni che singhiozzava disperata.

Accanto a lei c’era un uomo che sembrava essere il custode del tempio.

Stava battendo le mani e mormorando «Namu Amida Butsu’s». Entrambi erano vestiti di bianco. Quando la preghiera fu terminata, il sacerdote accompagnò la ragazza sull’orlo delle rocce e stava per spingerla in mare, quando O Tokoyo corse al salvataggio e riuscì ad afferrare il braccio della ragazza appena in tempo per salvarla. Il vecchio sacerdote parve sorpreso da quell’interferenza, ma non si arrabbiò e non la spinse via, ma spiegò: «Dal tuo intervento sembra che tu sia straniera in questa piccola isola, altrimenti sapresti che la spiacevole situazione in cui mi trovi non mi fa certo piacere, né fa piacere a nessuno di noi. Disgraziatamente in quest’isola siamo sotto la maledizione di un dio crudele che chiamiamo Yofuné-Nushi. Vive sul fondo del mare e una volta all’anno pretende una ragazza non ancora quindicenne. Questa offerta sacrificale deve essere fatta il 13 giugno, Giorno del Cane, tra le otto e le nove di sera. Se gli abitanti del nostro villaggio trascurano questo obbligo, Yofuné-Nushi s’infuria e scatena grandi tempeste che fanno affogare molti dei nostri pescatori. Con il sacrificio di una sola ragazza ogni anno molte vite vengono salvate. Per gli ultimi sette anni è stato mio triste compito sovrintendere alla cerimonia, ed è questo che hai appena interrotto». O Tokoyo ascoltò fino alla fine la spiegazione del sacerdote, poi disse: «O santo monaco, se le cose stanno come dici, sembra proprio che ovunque vi sia sofferenza. Lascia andare questa giovane e dille che può smettere di piangere, perché io sono più infelice di lei e prenderò volentieri il suo posto e offrirò me stessa a Yofuné-Nushi. Sono l’infelice figlia di Oribe Shima, un samurai di alto lignaggio che è stato esiliato su queste isole. Sono venuta qui in cerca del mio amato padre, ma è così strettamente sorvegliato, che non posso raggiungerlo e nemmeno sapere esattamente dove è stato nascosto. Il mio cuore è spezzato e non ho più niente per cui valga la pena di vivere, per cui sono felice di salvare questa fanciulla. Ti prego, prendi questa lettera indirizzata a mio padre. Tutto ciò che ti chiedo è che tu faccia il possibile per consegnargliela». Così dicendo, Tokoyo prese il vestito bianco della fanciulla e lo indossò. Prima s’inginocchiò davanti all’immagine di Buddha e lo pregò di darle forza e coraggio per uccidere il dio malvagio, Yofuné-Nushi. Poi sguainò un piccolo e bel pugnale che aveva ereditato dai suoi antenati e stringendolo tra i denti perlacei si tuffò nel mare ruggente e scomparve, mentre il sacerdote e l’altra ragazza la seguivano con gli occhi pieni di meraviglia e ammirazione, e la ragazza anche di gratitudine. Come abbiamo detto prima, Tokoyo era stata allevata tra le tuffatrici del suo paese a Shima, era una perfetta nuotatrice e aveva anche conoscenze di lotta e di jujitsu, come molte ragazze del suo rango a quei tempi. Tokoyo nuotò verso il fondo attraverso l’acqua limpida illuminata dalla brillante luce lunare. Nuotò giù, sempre più giù, attraversando banchi pesci argentati, finché raggiunse il fondo, dove si trovò di fronte a una caverna sottomarina che risplendeva di luci fosforescenti provenienti da conchiglie awabi e dalle perle che brillavano attraverso le valve aperte. Quando Tokoyo guardò nella grotta, gli sembrò di vedere un uomo seduto. Senza nessuna paura, desiderosa di combattere e morire, si avvicinò tenendo il pugnale pronto a colpire. Tokoyo credeva che fosse Yofuné-Nushi, il dio crudele di cui aveva parlato il sacerdote. Ma il dio non dava segni di vita e Tokoyo vide che non era un dio, ma solo una statua di legno di Hojo Takatoki, l’uomo che aveva mandato in esilio suo padre. Inizialmente si arrabbiò e provò l’impulso di sfogare la sua vendetta sulla statua, ma dopo tutto a che sarebbe servita una cosa del genere? Meglio fare il bene che il male. Avrebbe portato l’oggetto in salvo. Forse era stato gettato lì da qualcuno che, come suo padre, aveva sofferto nelle mani di Hojo Takatoki. Era possibile il recupero? Più che possibile: era probabile. Tokoyo si sfilò una delle cinture e la girò intorno alla statua, che portò fuori dalla caverna. Era impregnata d’acqua e pesante, ma in acqua le cose sono più leggere, e Tokoyo non prevedeva problemi nel portarla alla superficie. Stava per legarsela al dorso quando successe l’imprevedibile. Vide arrivare lentamente dalle profondità della caverna una cosa orribile, una creatura luminosa e fosforescente a forma di serpente, ma con le gambe e delle piccole scaglie sul dorso e sui fianchi. La cosa era lunga otto shaku (quasi dieci metri)... Gli occhi erano fiammeggianti. Tokoyo strinse il pugnale con rinnovata determinazione, nella sicurezza che questo era il dio crudele, lo Yofuné-Nushi che ogni anno pretendeva che gli fosse gettata una ragazza. Senza dubbio lo Yofuné-Nushi l’aveva scambiata per la ragazza che gli era dovuta. Bene, gli avrebbe fatto vedere chi era, avrebbe fatto di tutto per ucciderlo ed evitare che altre vergini di quella povera isola fossero sacrificate. Il mostro veniva avanti lentamente, e Tokoyo si preparò al combattimento.. Quando la creatura fu a un paio di metri da lei, saltò di lato e la colpì nell’occhio destro. Questo disorientò talmente il mostro, che girò su se stesso e cerco di rientrare nella caverna, ma Tokoyo era troppo furba per lui. Accecato all’occhio destro, ma anche dal sangue che gli scorreva nel sinistro, il mostro era lento nei movimenti, e così la coraggiosa e agile Tokoyo riuscì a fare con lui più di quanto desiderasse. Si portò sul lato sinistro, dove poteva pugnalarlo al cuore, e rendendosi conto che non aveva più molto da vivere, lo precedette per impedirgli di entrare nella caverna, dove nell’oscurità si sarebbe trovata in svantaggio. Ma Yofuné-Nushi non era in grado di vedere la strada per tornare nelle profondità della caverna e dopo due o tre pesanti rantoli, morì non lontano dall’entrata.

O Tokoyo fu compiaciuta del successo.

Sapeva di aver ucciso il dio che costava la vita di una ragazza all’anno alla gente dell’isola in cui si era recata alla ricerca di suo padre.

Si rendeva conto che doveva portare in superficie lui e la statua di legno, cosa che riuscì a fare dopo parecchi tentativi e dopo essere rimasta nel mare per quasi mezz’ora.

Nel frattempo il sacerdote e la fanciulla avevano continuato a guardare nell’acqua in cui era scomparsa, ammirati dal suo coraggio, mentre il sacerdote pregava per la sua anima e la ragazza ringraziava gli dei. Immaginatevi la loro sorpresa quando improvvisamente videro un corpo che si dibatteva risalire alla superficie in modo piuttosto inelegante! Non riuscirono a capire nulla, finché a un certo punto la fanciulla gridò: «Padre, è la ragazza che ha preso il mio posto e si è tuffata nel mare! Riconosco i miei vestiti bianchi. Ma pare che abbia con sé un uomo e un pesce gigantesco». Intanto il sacerdote si era reso conto che si trattava di Tokoyo che era risalita alla superficie e le fornì tutto l’aiuto che poteva. Si precipitò giù dalle rocce e la spinse a riva quasi priva di sensi. Gettò la cintura attorno al mostro e tirò la statua di Hojo Takatoki su uno scoglio fuori dalla portata delle onde. Poco dopo arrivò un suo aiutante e tutto fu trasportato con attenzione fino a un posto sicuro nel villaggio. Tokoyo era l’eroina del momento. Il sacerdote riferì tutta la storia a Tameyoshi, il signore che governava sull’isola a quell’epoca, e questi a sua volta riferì la faccenda a Hojo Takatoki, che governava la provincia di Hoki, che comprendeva le isole di Oki. Takatoki soffriva di una malattia praticamente sconosciuta ai medici del tempo. Il racconto del recupero della statua di legno gli fece capire che stava soffrendo per la maledizione di qualcuno che aveva esiliato ingiustamente, qualcuno che aveva scolpito la sua immagine, l’aveva maledetta e l’aveva affondata nel mare. Ora che era stata riportata alla superficie, sentiva che la maledizione se n’era andata e sarebbe stato meglio, e così fu. Udendo che l’eroina era la figlia del suo antico nemico Oribe Shima che si trovava in prigione, ordinò che fosse subito liberato e grande fu l’esultanza. La maledizione gettata sull’immagine di Hojo Takatoki aveva attirato il dio crudele Yofuné-Nushi, che esigeva l’offerta di una vergine ogni anno. Ora Yofuné-Nushi era stato ucciso, e gli isolani non erano più terrorizzati dalle tempeste. Oribe Shima e la coraggiosa figlia O Tokoyo fecero ritorno al loro paese nella provincia di Shima, dove la gente li acclamò festosamente, e la loro fama ben presto fece rinascere le terre impoverite che la gente non aveva più voglia di coltivare. Sull’isola di Kamijima (Isola Sacra) nell’arcipelago di Oki tornò a regnare la pace. Nessuna vergine fu più sacrificata il 13 giungo al dio crudele Yofuné-Nushi, il cui corpo fu seppellito sul promontorio vicino al tempio in cui era cominciata la nostra storia. Un’altro piccolo tempio fu costruito per commemorare l’evento e fu chiamato la Tomba del Serpente Marino. La statua di legno di Hojo Takatoki, dopo aver viaggiato a lungo, fu collocata presso Honsoji, a Kamakura.


Fonte: https://www.ilbazardimari.net/



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